rougho

once you know what the question actually is, you'll know what the answer means

L’asciugamano sul pavimento

Sono in hotel.

Sono di nuovo in hotel. E’ tipo la seconda volta in un mese. Non riesco neanche a ricordare in quanti hotel sono stato durante le due settimane di vacanza negli USA. Indicativamente, dieci diversi hotel in cinque mesi.

L’esperienza alberghiera mi piaceva, una volta: era una cosa fuori dall’ordinario, una fuga dalla realtà in cui non devi svegliarti presto per forza, qualcuno pulisce la stanza per te e mangi salame a colazione. Era divertente girare per i corridoi sniffando l’odore di moquette consunta degli alberghi di fascia più alta o del legno dei mobili da poco negli Holiday Inn. Ora non lo sopporto quasi più, mi sento estraniato, desidero stare a casa mia, se necessario pure pulirla da solo, in un ambiente familiare, continuo, monotono.

Negli hotel vige una violenta ipocrisia: quella degli asciugamani. Dovunque uno vada, trova sempre il cartellino color panna e verde che sensibilizza l’ospite sul tema dell’ambiente. Si spiega, con toni estremamente ragionevoli, che per lavare la caterva di asciugamani che c’hanno in quell’hotel servono N-mila litri d’acqua all’anno; si motiva l’ospite facendolo sentire importante, con frasi tipo “you have the choice!”, gli si illustra il modo di porre fine a questo incongruo spreco d’acqua: se hai un cuore verde e vuoi usare il tuo dannato asciugamano più di mezza volta riappendilo al gancio; se invece ti piace lo spreco e te ne sbatti altamente dei bambini texani che per colpa tua non potranno bere acqua liscia e dovranno accontentarsi di coca-cola, beh, allora butta l’asciugamano sul pavimento (se puoi, con un vago sguardo di disprezzo) e noi te lo laviamo.

L’asino, povera bestia innocente chiamata in causa dal fato, casca sul fatto che tu puoi appendere l’asciugamano al gancio; lo puoi asciugare col fon, stirarlo, ripiegarlo e metterlo esattamente dov’era quando hai preso possesso della stanza; puoi chiuderlo nella cassaforte, nasconderlo in un cassetto o spillarlo al soffitto colla pinzatrice; qualunque cosa tu faccia al tuo rientro in camera troverai un asciugamano nuovo e fresco di lavaggio.

Come nel film “Ricomincio da capo” (quello del giorno della marmotta con Bill Murray, per intenderci) si è costretti a rivivere ogni giorno l’alienante sensazione di un asciugamano pulito sulla faccia, senza speranza di provare la familiare sensazione di un asciugamano umidiccio, che puzza un po’, magari con qualche puntina rossa di sangue lasciata dalla rasatura (nel mio caso, macchie che farebbero impazzire Dexter): no, che fosse appeso o sul pavimento il tuo asciugamano è una rigida lastra di stoffa inamidata. La tua coscienza ecologica è a posto e la tua soddisfazione da vip de noantri anche.

Con buona pace dei bambini texani.

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I supermercati americani

Ossia: dell’ingenuità di un europeo che fa la spesa

Sono trascorse oltre due settimane dal mio arrivo in terra statunitense, e in tutto questo tempo ho avuto modo di andare al super non più di quattro volte. Poche per poter asserire di condurre una vita casalinga; abbastanza, però, per imparare delle nozioni di base sul carrello di Bob Smith (o Ricardo Gonzalez, da queste parti).

In primo luogo: le dimensioni. Come si sa, gli Stati Uniti sono grandi, le strade sono grandi, le auto sono grandi, le persone sono grandi, i supermercati non possono essere da meno (quest’ultimo fatto correla col penultimo). Se nei centri delle città si possono trovare dei supermercati di scala europea, nelle aree suburbane il mart di zona sarà un’immane capannone pieno di tutto. Ora, analizziamo il tutto.

All’ingresso si è accolti da un’assortimento di biscotteria e dolciumi: come dire, un modo come un altro di mettere in chiaro le cose. Fra biscottini al cioccolato, meringhe, intere torte e muffin pesanti come granate della Grande Guerra spiccano, a mio dire, gli sugar cookies: leggendo la lista degli ingredienti, in effetti, lo zucchero è il primo, a indicare la sua predominanza nella ricetta dei biscotti suddetti. Ciò è vieppiù sorprendente se si tiene conto di quanto fottutamente dolciastri siano tutti gli altri. Inoltre, la speranza di trovare biscotti senza burro/zucchero/cioccolato si concretizza in un miserando ma irragionevolmente costoso pacchetto di cantucci Nonni’s. Ma passiamo oltre.

Accanto a un lungo comparto di vini -sul quale non ho competenza- si trova un piccolo frigo con (relativamente) pochi formaggi di varia provenienza, esposti con la studiata confusione che potrebbe avere un cumulo di monete d’oro e pietre preziose nella nave di Willy l’Orbo: a fronte di uno squallidissimo pezzo di gouda che al Rewe di Mainz mi tirerebbero appresso per vier solden qui vengo espropriato di 4.99 $. Ma è importato, quindi è figo e costa.

Joghurt: praticamente solo due marche, una pseudo-greca e l’Activia. Se ne possono trarre interessanti dati sugli intestini degli americani che, in questa sede, non trarremo.

Il surgelato spopola: se da un lato il banco carne (rigorosamente già impacchettata) offre un’ampio assortimento di bestiame macellato, nei frigoriferi lunghi come piste da bowling ogni cibo concepito dall’uomo, con una netta preferenza per il cibo pessimo, si trova sotto zero e pronto per essere sbattuto in microonde e divorato senza cognizione di causa. D’altronde il vero processo di degustazione avviene nell’atto della scelta, in quanto il prodotto vero e proprio non è il contenuto, ma il packaging.

Per spezzare una lancia in favore del mio buon vecchio super, il settore frutta e verdura almeno ce prova. C’è effettivamente tanto di un po’ di tutto, di cui molto da agricoltura biologica. Peccato che al 75% non sappiano di niente. Menzione speciale va al pacco di carotine piccole, promosso con la scritta “eat ‘em like junk food!”, che onestamente mi ha fatto venire i brividi.

Altra chicca, l’acqua. Ieri a pranzo ho mangiato una pizza da Domino’s, nota catena di -pensa un po’- pizza. Quando ho chiesto una bottiglietta piccola d’acqua la gentile cassiera mi fa “mi spiace, abbiamo solo queste” mostrandomi quella che, nella mia ingenuità provinciale, avrei definito una bottiglietta piccola d’acqua. Scacciando dalla mia mente un’acuta sensazione di perplessità prendo la bottiglietta, sulla quale successivamente faccio caso alla dicitura “0 calories”. Una società in cui è necessario specificare che nell’acqua non ci sono calorie (né grassi, né vitamine, né proteine) è necessariamente una società con grossi problemi alimentari. Specie perché la necessità di una sì ottusa specifica dipende dalla soverchiante presenza, nello spettro bibitorio degli statunitensi, di bevande gassose, succhi di frutta (nel migliore dei casi) e di quell’aberrazione che sono le vitamin water, ossia acqua con dentro tanta roba “energizzante” che una bottiglia di quelle equivale a un pasto.

Alla cassa, infine, si consuma l’ultimo scempio: il cliente viene munito di un numero sconsiderato di buste di plastica nelle quali il cassiere stesso inserisce non più di due/tre prodotti per busta. Alla faccia della green California.
Concludo con qualche foto scattata durante un pomeriggio nel centro di Santa Barbara: amena cittadina senza infamia e senza lode, con un sacco di ristoranti, negozietti e caffè sull’unica strada di una qualche rilevanza, e un oggettivamente rimarchevole affaccio sul Pacifico.  Devo dire che il mio tranquillo sobborgo bicycle-friendly e l’area dell’università mi stanno più simpatici.

California dreaming

Prime impressioni dalla fricchettonia d’America

 

Il 9 aprile mi sono imbarcato su un volo Francoforte – Santa Barbara con scalo a San Francisco. Manco a dirlo, ora sono a Santa Barbara.

Non è la prima volta che vengo negli Stati Uniti, né la prima volta che vengo in California. Indubbiamente, però, sarà la mia permanenza più lunga (sto quasi tre mesi) e questo mi permetterà di dare un’occhiata dall’interno ad un pezzo decisamente affascinante di quel grande Paese col quale, in un modo o nell’altro, noi europei non possiamo non fare i conti.

Nato in un’Europa postbellica dominata dal piano Marshall prima e dall’atlantismo poi (almeno per chi si trovava dal lato ovest della Cortina), cresciuto a pane e film americani, idolàtra di attori e attrici made in USA, poi adolescente arrabbiato contro il mostro capitalista, universitario critico contro una globalizzazione spersonalizzante e uniformante, infine sostenitore di un modello europeo che sarebbe vincente se non portasse con sé il virus della finanza spregiudicata inoculato da Reagan nel corpo già malconcio dell’economia di mercato, io come tanti altri della mia generazione mi rapporto agli Stati Uniti con un misto di ammirazione, diffidenza e disprezzo, mescolati in proporzioni selvaggiamente variabili. Ammirato davanti alle prove di democrazia che gli americani riescono ancora a impartire al resto del mondo, rimango attonito di fronte all’incapacità di questo popolo a mettere in piedi uno straccio di riforma sanitaria che da noi sarebbe cestinata come discriminatoria, mentre qui fa guadagnare ad Obama l’ineffabile appellativo di “socialista”.

Carico di questi sentimenti contrastanti, una volta approdato sulla Costa Ovest pieno di belle speranze -e con due enormi valigioni- mi sono fatto borghesemente portare in taxi nel mio appagamento in affitto: una tipica casa a un piano, circondata da un ampio giardino, in una zona residenziale foderata di tipiche case a un piano circondate da un ampio giardino. In un trionfo di kitsch da manuale, il mio generoso affittuario (che per comodità chiameremo Bob) ha arredato l’appartamento in stile fusion mescolando mobilia vecchia-baita-di-montagna, ventilatori con pale a forma di foglia rubati durante un viaggio a Cuba e teche di vetro dalle quali si affacciano, sorridenti ma evidentemente perplesse, delle bambole di geishe giapponesi. Un’atmosfera che avevo potuto assaporare solo durante la lettura di “La svastica sul sole” di Philip K. Dick, in cui si immagina un Asse vittorioso sulle forze alleate e una California divenuta protettorato dell’impero del Sol Levante. Beh, ora capisco da dove proviene quell’atmosfera.

Un altro elemento che solletica l’immaginazione è il paesaggio ampio, largo, un’immensa distesa di rigogliosa vegetazione screziata da enormi avenues mollemente trafficate da pick-up più grossi del mio appartamento tedesco. Ogni strada è incorniciata da una pista ciclabile, e queste ultime sono quotidianamente popolate da una folta schiera di ciclisti che addolciscono il background di Toyota, Mustang e GMC. Non potendo resistere al richiamo delle due ruote ho compiuto il folle gesto: il primo giorno stesso ho comprato una mountain bike (battezzata la Poderosa, vedi sotto): se da un lato ad andare in bici non ci si scorda mai, è anche dolorosamente vero che il culo non ha una memoria altrettanto ferrea, e dopo solo tre viaggi da casa all’istituto il mio povero fondoschiena è in frantumi.

Ci sono tre luoghi comuni che usualmente associamo agli USA e sono assolutamente veri. Il primo riguarda a pubblicità: ne fanno tantissima -al confronto i programmi di Mediaset non sono mai interrotti- e fa decisamente cagare; sono vecchie, sciocche, spesso ridicole, e trattano il cliente come un imbecille completo – sì, peggio di quanto non facciano le pubblicità europee. Sono rimasto quasi scioccato.

Il secondo cliché che mi si è materializzato in tutta la sua potenza è il tritarifiuti nel lavandino della cucina: esiste, ed è anche un oggetto spaventoso. Produce suoni che sembrano provenire dalle profondità infernali e non riesco a non associarlo a immagini da film horror, tipo gente che spinge giù per il lavabo un braccio mozzato o It che ve ne sbuca fuori. L’ho usato una volta, non lo accenderò mai più.

Concludo questa prima pagina di “diario d’oltreoceano” con il terzo, meraviglioso luogo comune: la mattina trovo il giornale sul vialetto davanti casa.

Facebook, la CIA e il giornalismo americano

Ho appena finito di vedere il video di un servizio tv in cui il deputato del Congresso degli Stati Uniti Christopher Sartinsky, capo della CIA, afferma candidamente che Facebook fa risparmiare un sacco di soldi alla sua Agenzia, giacché è molto più pratico prendere le informazioni che la gente dà spontaneamente che non ottenerle in altri modi. Segue dibattito fra la bionda giornalista e i tre ospiti, fra cui annoveriamo l’Esperto Pelato, l’Esperto Sfigato e l’Esperta Grassona.

 

Da questo pur breve video ho appreso un numero di cose, nello specifico:

  1. nel Congresso USA c’è gente capace di dire le cose come stanno. Buono a sapersi. Anche se si tratta dei famosi Pulcinella secrets.
  2. l’intero dibattito a seguire è mantenuto ad un ritmo di conversazione, interruzioni e logorrea tanto frenetico nella pratica quanto pacato nei toni. Anche se capisci il senso delle parole alla fine hai l’impressione che non si sia detto un cazzo. Mi interrogo se è solo un’impressione.
  3. All’arbitraria gravità del tema trattato si accompagna l’assoluta necessità -un bisogno tutto americano- di buttarla in caciara; nello specifico, l’Esperta Cicciona che tesse entusiastiche lodi del “Facebook Cinese” che, a suo dire, è molto più divertente della creatura di Zuckerberg. A dispetto di una grafica che fa sembrare moderna quella di MacDonald’s®.

Noi europei abbiamo tanto da imparare.

[fonte]

Home: our Planet, and a house in New York.

Girovagando in Rete mi sono imbattuto in due film straordinari.

Uno è Home, un documentario sul pianeta che abitiamo da millenni e che nell’arco di cento-centocinquanta anni siamo riusciti a compromettere in modo quasi irrimediabile. Contrariamente a quanto ci di può aspettare, non è un documentario allarmista-catastrofista: è uma meravigliosa carrellata di immagini della nostra unica Casa, splendidamente incorniciate da una musica emozionante e descritta dalla voce di Glenn Close. Due cose che ho apprezzato in modo particolare: la conclusione, che mostra quanto di buono si sta facendo in tutto il mondo per rimediare ai danni; e una frase ripetuta spesso in quest’ultima parte del film: it’s too late to be pessimist.

 

L’altro film è un brevissimo cortometraggio, un’intervista a un uomo di Manhattan che colleziona da decenni i più disparati oggetti. Li conserva nella propria casa, che apre a chiunque voglia visitarla. Per me quest’uomo incarna la più pura essenza di quell’America di cui ero innamorato da piccolo: l’apertura agli altri, la curiosità, l’approccio alla vita ingenuo e profondo allo stesso tempo, vivere un susseguirsi di giorni sceneggiati da un Woody Allen particolarmente ispirato. Stupendo – e stupendamente musicato.

Sbaglierò

Solo sei mesi fa quello che sta succedendo sarebbe risultato fantascienza.

Solo sei mesi fa l’idea che un giorno avremmo sentito Berlusconi rilasciare non più di una volta a settimana dei sommessi giudizi positivi nei confronti di un altro governo di avrebbe fatto solo ridere. Immaginare che da giornali e notiziari avremmo avuto quasi esclusivamente notizie di politica ed economia, dibattiti su lavoro e sviluppo, su finanza e stato sociale, è qualcosa che ci avrebbe fatto pensare a una sit-com più che a un’eventualità reale.

Sono consapevole del fatto che questo governo non è la soluzione a tutti i problemi del Paese, che è l’emanazione di un’intellighenzia finanziaria rappresentativa di una frazione molto limitata del popolo italiano, che gli armadi dei ministri non sono totalmente privi di qualche ossicino. Tuttavia, non posso fare a meno di gioire all’idea che dopo venti fottutissimi anni posso parlare con i miei amici tedeschi a testa alta, orgoglioso cittadino di un grande Paese che ha ritrovato un minimo di dignità. Quasi per magia infatti il teatrino berlusconiano sembra roba preistorica, relegata in un tempo antico, un incubo dal quale finalmente ci siamo risvegliati. Per pochi Feltri e Sallusti che proseguono a fare giornalismo da operetta -più per incapacità di far altro, credo- ci sono molti servitori dello Stato che hanno finalmente il supporto dei vertici nel fare il proprio lavoro, nel far rispettare la legge, nel far pagare le tasse. E la cosa ancor più degna di meraviglia è che con una specie di reazione a catena questo supporto lo stanno dando anche i gli stessi cittadini, sempre meno invischiati nella fanga di olgettine e lettoni di Putin, e sempre più consapevoli che i problemi ci sono, sono reali, e per risolverli -pensa un po’- bisogna ragionare. Tutti. Insieme.

Mi sbaglierò, non ne dubito, sicuramente rimarrò deluso. Ma per adesso, di questo governo io sono felice.

 

Di nodi e soluzioni

In questi giorni mi sto interrogando su quanto sia facile fare la cosa sbagliata come reazione a un’altra cosa sbagliata.

Ad esempio, quando una comunità viene colpita da un’ondata di controlli fiscali che ne svela la diffusissima evasione, e come reazione si indigna, dicendo di cercare altrove gli evasori.
O ancora, quando un ex presidente del Consiglio, le cui vicende hanno avuto e mantengono un grande peso nella storia di una nazione, sbatte in faccia il proprio assordante silenzio alla morte di un avversario politico – gesto peraltro amplificato dall’uscita, durante il minuto di silenzio, di piccolissimi epigoni, speranzosi di prolungare il bacio di quella silenziosa bocca di cui si fanno megafono.
E poi l’atto più scioccante, quello di un giornale che raccoglie il logoro guanto di sfida lanciato da uno sciocco giornalista tedesco (traduzione) con l’hobby del facile qualunquismo e, per tutta risposta ad una sciocchezza, infierisce una sciabolata nella dolorante ferita di una nazione ossessionata dai propri fantasmi, per di più a poche ore dal giorno in cui quei fantasmi vengono evocati dalla terra come cenere sollevata dal vento.

Mi si fa sempre più evidente la facilità con la quale al danno si può rispondere con un danno più grande; qualora necessario, diventa ancora più manifesta la minuscola statura di persone che si guardano bene dal fronteggiare la straordinaria complessità del mondo e preferiscono un secco colpo d’ascia al lento, straziante, certosino lavorìo che solo può portare alla soluzione dei problemi.

Perché i problemi ammettono delle soluzioni – degli scioglimenti, una morbida transizione da uno stato di grande complessità a uno di complessità minore; d’altro canto, le soluzioni gordiane, attraenti per la loro immediatezza e semplicità, per loro stessa natura non sciolgono un bel niente, ma anzi frammentano la corda in un numero ancora maggiore di pezzi, che spesso rappresentano problemi numerosi e piccoli, e per questo ancora più insidiosi. Dal 1945, ogni guerra è stata così.

Insomma, è così desolante vedere la dabbenaggine e la violenza insite in certi approcci drastici, assolutisti, netti.

Riflettere, discutere, osservare. Tesi, antitesi, sintesi. E’ un modo di comportarsi che stiamo perdendo, ed è un male, perché è forse l’unico modo che ci permette di arrivare a soluzioni più grandi dei problemi dai quali si è partiti.

 

Buon compleanno

Come faccio a dire anche una sola parola sensata?
Come posso esprimere il profondissimo senso di vuoto? La morsa che a tradimento mi prende allo stomaco ogni volta che vedo negli occhi di qualcuna uno sguardo anche lontanamente simile al tuo?
Dopo ventinove anni che ti ho conosciuto, che mi hai cresciuto, che abbiamo litigato e che ti ho voluto un bene dell’anima, dopo ventinove anni in cui la tua presenza è stata un inamovibile dato di fatto che nella mia vita non ho mai pensato di mettere in discussione neanche nei momenti in cui era evidente come sarebbe andata a finire. Dopo anni durante i quali mi hai insegnato più di quanto tu mi abbia mai detto, ma solo con il comportamento, un modo di vivere al contempo regale e popolano, da Margherita di Savoia e Anna Magnani. Con un comportamento, un modo di stare in famiglia, in società, che è stato un modello di riferimento per tutta la famiglia e che hai trasmesso hai tuoi figli come, spero, ai tuoi nipoti.
Dopo ventinove anni durante i quali ti ho chiesto sempre troppo, troppo poco della tua vita, delle tue esperienze, della guerra, della pace, dell’amore, insomma di quelle cose che contano soprattutto quando le si vive con quell’intelligenza e quello spirito, quella forza, quella incrollabile capacità di tirare avanti che solo persone della tua generazione possono vantare, e che io oggi ti invidio.
Cosa potrò raccontare di te, un giorno, a chi mi verrà dopo? Della cucina, certo, e dei soprannomi buffi che trovavi per chiunque con la naturalezza propria di chi è vissuto a Roma. E di come abbiamo litigato quand’ero adolescente, perché avevo i capelli troppo lunghi e uscivo tardi per vedermi con gli amici – motivi di discussione immutati dagli anni ’50. Potrò raccontare di quanto duro fosse il tuo carattere su certi argomenti, e di come negli anni, invecchiando, tu lo abbia addolcito in aperta controtendenza con ciò che chiunque si sarebbe aspettato da una donna anziana – ma non da te. Potrò raccontare dell’orgoglio col quale parlavi dei tuoi genitori e dei tuoi parenti, lo stesso orgoglio col quale io parlo di te oggi. Ma soprattutto potrò raccontare di quanto mi manchi ora che non ci sei, e di quanto sia grande il pur minuscolo sollievo di rivedere il tuo sguardo negli occhi di mia madre.

Buon compleanno nonna, e scusa il ritardo con il quale ti faccio gli auguri.

Serietà

Mario Monti, cattolico, primo ministro di un governo costituito in larga parte da esponenti cattolici, nella visita ufficiale al papa NON gli ha baciato l’anello.

Silvio Berlusconi, pluridivorziato, noto per le feste fortemente connotate da sesso promiscuo, capo di un partito costituito in larga parte da pregiudicati, primo ministro di un governo di vallette e personaggi di più che dubbia moralità, non si è mai tirato indietro dal baciare l’anello suddetto.

Il prossimo che attacca Monti lo faccia nel merito di circostanziate critiche alle sue strategie per la risoluzione della crisi economica, o opti per un dignitoso silenzio.

I buoni propositi

Il 2011 è stato archiviato quasi nove giorni fa. E’ stato un anno ricco, sia di eventi spiacevoli -molti decisamente orribili- sia di eventi stupefacenti, belli, irripetibili. In questo post, però, non voglio fare un bilancio del 2011.

Rispolvero un’abitudine che non ho mai sentito mia, quella dei buoni propositi per l’anno nuovo; e proprio perché non è un’abitudine sono fiducioso nella riuscita di questo sfaccettato progetto di Vita, nel quale sin dall’inizio dell’anno (ossia oggi, per quanto mi riguarda) ho cercato di infondere il massimo impegno.

In questo nuovo anno, dunque, voglio:

  • migrare il blog (fatto)
  • vestire meglio (essere un fisico non deve significare necessariamente mortificare il proprio aspetto esteriore)
  • svegliarmi al mattino presto e fare sport
  • mangiare più frutta e verdura
  • liberarmi di quella sciatteria mentale che porta a rimandare trenta volte le cose, a ingobbirsi davanti al computer nella svogliatezza, nella pigrizia, nell’inerzia
  • lavorare un sacco
  • riprendere le sane abitudini di quando, durante il liceo, andavo al cinema almeno una volta a settimana (Per svariate ragioni (non ultima la lingua) non mi sarà possibile mantenere quei ritmi, ma l’odore polveroso delle poltrone rosse o blu mi manca davvero troppo, e voglio metterci una pezza)
  • continuare a imparare il tedesco
  • ascoltare più spesso musica jazz
  • amare G, amare i miei parenti, amare i miei amici, amare le persone che (ancora) non conosco

In generale, voglio impegnarmi a vivere più pienamente di quanto abbia fatto nell’anno passato. Tenendo conto di quanto ricco e travolgente quest’ultimo è stato mi rendo conto che significherà un gioco al massacro, ma è pure vero che ci riposeremo un sacco da morti. Non so quanti obiettivi di questa lista, e come, riuscirò a portare a termine, ma posso garantire che l’impegno è massimo e la volontà robusta.

Buon anno amici miei.

 

Arcobaleno nel Kurpark, Wiesbaden